mercoledì 5 marzo 2014

La grande bellezza

“La grande bellezza” di Paolo Sorrentino. Solo per chi l’ha visto.

Se non avete visto questo film, smettete immediatamente di leggere perché qui sotto vi dico tutto.
Primo avvertimento: non è un film su Roma, come erroneamente detto da molti critici. È un film intimo, personale. Che parla di profondità e del senso della vita.
Detto questo, procediamo.
Il protagonista Jep (Servillo) ha l’anima dannata. Avrebbe voluto una vita di significati, amore e profondità e invece si trova ad essere il principe della vacuità mondana. Il fatto che la sua sia un’anima dannata lo vediamo confermato dall’ultima scena con il Cardinale (Herlitzka) che, dopo essere apparso per tutto il film come apparentemente superficiale, si congeda da lui con uno sguardo tremendo e l’imposizione del segno della croce.
Jep è una specie di Dott. Faust che, in cambio di una vita di fama e di soddisfazioni materiali, ha pagato con l’allontanamento dall’unica cosa che conta: l’amore, estrema bellezza per l’anima.
L’unico suo vero interesse è per la donna che avrebbe dovuto amare ma che non ha mai potuto. In nome di quell’amore solo promesso, tornerà alle sue origini, alle sue radici per finalmente morire. «Che la storia cominci» sono infatti le sue ultime parole pronunciate (off) nel luogo dove ci fu il suo incontro con “la rosa che non colse”.
Ramona (Ferilli) rappresenta l’incontro con il suo opposto. Lui ha l’anima che imputridisce, lei ha il suo corpo che sta morendo. È malata. Lei lavora con il corpo, con i guadagni cura il suo corpo perché non vuole morire, e ha sempre incontrato solo persone interessate al suo corpo. L’incontro con Jep la sorprende perché è la prima persona che incontra interessata alla sua persona, alla sua anima.
Jep è capace di leggere il cuore delle persone, Jep ha imparato a leggere la verità delle situazioni e delle persone che lo circondano. Lo dimostra leggendo pubblicamente la vita di una insopportabile pseudo intellettuale di sinistra che si paluda di menzogne mentre sputa sentenze su tutto e su tutti. Questa capacità Jep l’ha sempre avuta, ma ha scelto di vivere una vita di superficialità per “non sentire il dolore di vivere”.
Ma nessuna vita di menzogna può essere vissuta senza un rimpianto vero e doloroso. Non certo da una persona straordinariamente sensibile, come è Jep.
E infatti continuamente gli si para davanti il ricordo del suo primo, unico, vero, puro, bellissimo amore della gioventù. Quello che non si è mai consumato e che proprio per quello è rimasto intatto. Jep piange alla notizia che lei è morta, e piange anche se non la vedeva da più di quaranta anni. Glielo dice il vedovo che ha appena scoperto da un diario postumo che lei lo aveva sempre considerato solo “un buon compagno”, ma che per tutta la vita aveva amato Jep. Senza vederlo mai più, ma rimanendo a lui legato da un filo potentissimo.
Per non avere avuto il coraggio di vivere una vita bellissima fatta di amore vero e potente, una vita piena davvero, Jep ha fatto il patto con il diavolo. Per quello Jep si è dannato l’anima. Per non sentire più il dolore del rimpianto. O forse, per aver preferito la gloria dell’effimero alla bellezza dell’amore.
Per questo Jep si è circondato di bellezze finte (le donne del volgarissimo jet-set che si fanno di droghe e di botox, le case fantastiche, le feste “indimenticabili”) e anche di bellezze “vere” come i meravigliosi palazzi romani dei quali lui e pochissimi altri “hanno le chiavi”, la stessa meravigliosa Roma che alle ore del suo ritorno a casa (sempre l’alba) urla la sua maestosa e struggente bellezza.
Ma tutto questo ormai non cura più l’anima di Jep ormai imputridita. “Il privilegio di avere la mia età (65anni) è che posso permettermi di non fare le cose che non ho voglia di fare“. E infatti inizia a chiedersi se non sia giunto il momento di mettere fine a tutto questo, alla superficialità, alla finzione, alla distruzione in mezzo alla quale ha sempre nuotato. Inizia a guardarsi indietro.
Jep inizia a sorprendersi a piangere davanti a una installazione di “tutte le foto che mi ha fatto mio padre da quando sono nato a oggi” messa in scena da un artista. Jep piange guardandole perchè rivede la sua vita, il fatto di non avere voluto un padre, il fatto di non avere avuto un volto che valesse davvero la pena di fotografare. Jep passa dal sorriso cinico al pianto vero portando la bara del figlio di una sua amica, suicida. E certo non piange per la morte di quel ragazzo. Piange perché la sua enorme intelligenza e sensibilità gli hanno reso trasparenti anche i funerali, perché lui ormai sa leggere quello che c’è in profondità dei gesti e dei riti. E piange perché si rende conto che in quella sua vita anche i funerali “sono una recita“, una festa della superficialità.
Il personaggio di Carlo Verdone, invece, è colui che, a differenza di Jep, ha la forza di sottrarsi al mondo di falsità e di vacuità al quale, anche se dopo ben 40 anni, si è sempre sentito estraneo. Ha la forza di ammetterlo e di tornare al paese natìo, dove ci sono gli affetti veri, le radici autentiche dell’uomo, la semplicità.
La “santa”, la suora pluricentenaria, irrompe con il compito di proclamare la verità: «Io mangio solo radici perché le radici sono importanti». È lì che il personaggio di Jep capirà di dover tornare nella natìa Capri per chiudere questo gioco con la morte, per chiudere la sua vita maledetta.
Emblematica l’espressione di enorme rimpianto negli occhi di Servillo quando guarda il vedovo con la sua nuova compagna che fanno un’esistenza “normale”. «Che belle persone che siete». Mentre lui, maledetto, è condannato a frequentare le orribili feste e le falsità che cercano di ottundere, non riuscendoci, il dolore di vivere. Occorre darci un taglio.
Jep lo farà, con il sorriso lieve sulle labbra. Lieve, leggero, come tutta la sua vita è stata. Con rimpianto.
Gianluca Floris